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EPIDEMIE, EFFETTI DEMOGRAFICI DELLE
L'evoluzione demografica delle popolazioni europee è stata contrastata fino al XIX secolo dalla ricorrente diffusione di grandi epidemie. Dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo (ma con minore incidenza a partire dal Settecento) la mortalità epidemica costituì il principale "distruttore delle eccedenze demografiche". In questo lungo ciclo di circa cinque secoli si suole tuttavia distinguere tra un'epoca della peste, che si concluse definitivamente in Italia verso la metà del XVII secolo e negli altri paesi dell'Europa occidentale nei primi decenni del secolo successivo, e un'epoca delle epidemie sociali, che si sovrappose in parte alla precedente, dalla metà del XVI fino alla seconda metà del XIX secolo. Benché le ultime grandi epidemie di peste abbiano aggredito l'Italia nel XVII secolo (1630-1631 nel centronord; 1656-1657 nel sud e in Liguria), già dalla fine del Cinquecento la peste aveva perso il ruolo di principale distruttore delle eccedenze demografiche. Dalla metà del Seicento predominarono il tifo e le febbri di origine tifoide, legate a situazioni di sottoalimentazione, alla miseria, alle migrazioni. Ma incidevano anche la malaria, il vaiolo e, nel XIX secolo, il colera, tutte epidemie strettamente legate a fattori sociali, e probabilmente con diversa incidenza sulle diverse classi sociali, contrariamente a quanto accadeva per la peste. L'epoca delle epidemie sociali precedette infine il periodo della mortalità controllata e cioè della mortalità sempre meno dipendente, in senso lato, dall'ambiente, e nel quale prevalgono, rispetto alle forme infettive a carattere epidemico, le malattie di tipo cronico-degenerativo e quelle del sistema cardio-circolatorio.

LE EPOCHE DELLE EPIDEMIE. Nel primo periodo, l'età della peste, le catastrofi demografiche, o grandi crisi di mortalità, con aumenti del numero dei morti, rispetto ai valori registrati negli anni ordinari, di tre-quattro (ma anche fino a dieci) volte, costituivano un evento frequente e quasi "normale". Nonostante la quantificazione dei fenomeni collettivi sia estremamente difficile, almeno fino alla seconda metà del XVI secolo, quando si generalizzò la tenuta dei registri parrocchiali, dopo la famosa peste nera del 1348 grandi ondate di peste si abbatterono sull'Italia (e spesso su tutta l'Europa) nel 1360-1363, nel 1371-1374, nel 1381-1384, nel 1388-1390 e infine nel 1398-1400. Nella prima metà del Quattrocento la peste comparve ancora frequentemente, ma l'impressione generale è che la gravità delle epidemie tendesse a diminuire, mentre il sincronismo fra le diverse zone si faceva meno netto. Le punte di mortalità inoltre erano intervallate da periodi più lunghi, e le epidemie sembrarono diffondersi con minore rapidità da una località all'altra. In conclusione, la frequenza e l'intensità delle crisi provocate dalla peste tesero a declinare (con qualche rilevante eccezione) dalla metà del XIV secolo, e il loro sincronismo tese ad attenuarsi, sia a livello regionale e nazionale che a livello europeo. Dalla seconda metà del XVI secolo né il tifo né le altre epidemie (neppure il colera nell'Ottocento) provocarono più delle catastrofi di intensità paragonabile a quelle determinate dalla peste. I loro effetti demografici derivarono piuttosto dal fatto che le crisi si ripresentavano, assai frequentemente (specie in certi periodi) e in modo estremamente diffuso. Il periodo delle epidemie sociali fu caratterizzato, oltre che dalla sparizione della peste, dalle grandi ondate epidemiche del tifo petecchiale, dalla recrudenza del vaiolo, durante il XVIII secolo e infine dalla graduale sparizione del tifo e del vaiolo nel corso del XIX secolo, in cui invece comparve il colera. Come non è risolto il problema delle cause della scomparsa della peste, così non è certo se il tifo, segnalato dalle cronache a partire dall'inizio del XVI secolo, sia effettivamente una malattia nuova per le popolazioni europee. È comunque indubbio che nel corso del Cinquecento e del Seicento le epidemie di tifo petecchiale furono frequenti e violente, e si alternarono a quelle di peste in tragica sequenza. Assai più della peste, il tifo, per le modalità di diffusione (legate a condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento) e per i legami ben noti con situazioni di carestia o di sottoalimentazione, rappresenta un esempio dell'importanza che i fattori ambientali, sociali ed economici hanno nell'incidenza e nella prevalenza delle malattie, e dunque di come la malattia, come la salute, sia nel contempo fenomeno biologico e fenomeno sociale. Dopo la peste e il tifo, una delle malattie epidemiche più diffuse nell'epoca moderna è senza dubbio il vaiolo. L'aumento della mortalità provocato nel complesso della popolazione dalle epidemie di vaiolo non è in genere eccezionalmente forte, per la caratteristica di questa malattia di colpire quasi esclusivamente le classi di età più giovani, almeno laddove le epidemie si succedevano a intervalli di tempo di pochi anni. Bisogna però considerare che gli effetti demografici a lungo termine di un'epidemia di vaiolo sono assai gravi, proprio per il fatto di colpire le classi che dovrebbero assicurare la riproduzione futura della popolazione. Il quadro delle epidemie sociali si chiude con il colera, giunto in Europa nei primi decenni del XIX secolo. È questa una delle forme epidemiche per le quali la selezione sociale appare più netta, proprio per il fatto che la sua diffusione è particolarmente favorita dalla precarietà delle condizioni igienico-ambientali dei quartieri poveri delle città più popolose. D'altra parte, fu proprio l'insorgere del colera che stimolò (dapprima in Inghilterra e in altri paesi europei, infine anche in Italia sul finire del XIX secolo) una serie di provvedimenti volti a difendere le popolazioni dagli attacchi epidemici e a risanare le strutture igienico-sanitarie delle città.

L. Del Panta



M. Livi Bacci, La société italienne devant les crises de mortalité, Dipartimento statistico, Firenze 1978; L. Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), Loescher, Torino 1980.
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